giovedì 13 febbraio 2014

A me architettura non mi piace

Credo che ci siano poche sensazioni dolorose a 24 anni come quella di perdere tempo prezioso.

Sono arrivato a Gent, in Belgio, con il progetto Erasmus, per studiarci architettura. La città è ridente, è piena di studenti, le distanze sono brevi e si percorrono in bicicletta, ci si organizza su Facebook per andare a bere e poi a ballare. C’è persino una strada interamente dedicata ai clubs e ai pubs per l’intrattenimento serale: Overpoortstraat, una via che mi ricorda quei western dove due filari di case fanno da quinte ai duelli tra pistoleri. Qui, al posto delle case di legno e dei saloon, c’è una sfilata di insegne luminose e un esercito di studenti che impugna pinte di birra.
Insomma, una buona prospettiva per un Erasmus.
Ma, per essere totalizzante,  l’esperienza dovrebbe prevedere delle amicizie storiche e una soddisfazione universitaria – o almeno di questo mi hanno convinto gli studenti qui: io ho sempre accomunato l’Erasmus con la goliardia, invece tutti studiano attenti. Forse sono le modalità della facoltà, forse sono questi ragazzi ad essere maturi e coscienti.

Io architettura non la sopporto più.
Ho passato cinque anni della mia vita a chiedermi se fosse la scelta giusta studiare semplicemente quello in cui avrebbero potuto aiutarmi mio padre e mio fratello. Non che fossi uno studente bisognoso: fino al liceo ero il secchione della classe, studiavo perché passavo tanta della mia vita in camera alla scrivania, ero bravo a riflettere e a trovare soluzioni creative. Il mio non era solo accumulo di nozioni, ci mettevo un presuntuoso apporto personale e questo ai professori piaceva.
Ho maturato una passione per le materie artistiche che si scontrava con l’idea di un futuro lavorativo e al momento di una scelta universitaria si intoppava nelle mie incertezze. Perciò ho seguito e orme di famiglia; ma mi piaceva andare in facoltà, a Roma, era divertente: mi alzavo ogni mattina per vincere al gioco di conoscere più gente possibile, una psicopatia generata dalla mancanza di amicizie e che mi ha trasformato da timido impacciato a importunatore seriale scanzonato. E poi mi piaceva provarci con le ragazze, con le straniere nuove ogni anno, e trovarmi in mezzo a situazioni sconosciute. Avendo sempre preso sotto gamba architettura, me la cavavo col minimo studio; che invece agli occhi dei professori era il massimo perché, dopo aver prodotto quasi nulla per un intero semestre, disegnavo con mio padre qualche settimana prima dell’esame e ne venivano fuori risultati eccellenti che gli altri studenti avrebbero solo potuto tirare fuori con molto più tempo.
Non solo perché mio padre pratica la professione da trent’anni, ma perché ha un vero talento, un gusto estetico coniugato ad una concezione dello spazio che si risolve in soluzioni eleganti. Disegnare guidato da lui mi ha insegnato dieci volte di più di quanto i professori hanno mai potuto fare.
Qualche tempo fa mio fratello mi ha detto con oggettiva sincerità che papà potrebbe avere pochi rivali architetti in Italia, e se è rimasto nella sua Campobasso è stato solo per un provinciale legame affettivo con gli amici e per una timidezza congenita che gli impedisce qualsiasi coraggio.

Quello che mio padre mi ha davvero trasmesso è stata la sua seconda grande passione: lo spettacolo. Nei rari momenti in cui ci incontravamo durante l’anno (fin da piccolo ho vissuto con mia madre) guardavamo i classici Disney, poi la sua collezione di film in dvd, dei buoni programmi in tv, mi portava a teatro per farmi scoprire Arturo Brachetti, il più grande trasformista del mondo, geniale manipolatore del palcoscenico e ancora tra i miei idoli.
Dopo cinque anni di architettura, cinque anni a discutere coi miei e a tornare sui miei passi, ad individuare le buone ragioni per studiare quella materia, a ripetere a tutti la stessa risposta quando mi chiedevano dei miei studi e di cosa allora invece mi sarebbe piaciuto fare, ho definitivamente realizzato che voglio dedicare la mia vita allo spettacolo.
Colorato, gioioso, interattivo, multi-disciplinare spettacolo. Perché è li che potrei dare il massimo. Gettare sangue e combattere. Persino innovare, ho tante idee. Nelle buone condizioni guadagnare.
Mi accorgo di essere circondato da centinaia di studenti che hanno le potenzialità e la voglia di diventare buoni o brillanti architetti. Io sarei sempre e solo un architetto mediocre, e l’eventualità di convincermi a lavorare in quel campo mi sembra la prospettiva di una vita mediocre.

Mentre scrivo sono nell’aula della facoltà belga e tutti gli studenti si presentano per il nuovo laboratorio di progettazione. Mi accorgo con rammarico che non avrò mai un legame intenso con questi ragazzi finché non parlerò di architettura con loro. Posso andarci insieme a sbronzarmi la sera, ma questo non mi basta più. E, peggio ancora, sembra non bastare neanche più a loro per accettarmi.
Ho cominciato ad organizzare una alternativa concreta, ma non è facile realizzarla. Per la prima volta, proprio perché sento di parlare della mia vita, comprendo i reali i problemi di soldi, di tempo e di dovere verso i miei. L’Erasmus dovrebbe essere una spensieratissima parentesi della gioventù e io lo sto trascorrendo a pensare. L’ultima concessione prima del momento in cui cominciare a definire quello che probabilmente sarò per tutta la vita, a meno di cambi di rotta in tarda età.
Benvenuti cambi di rotta, meglio tardi che mai si dice, ma a me quei quarantenni brizzolati che si gettano in nuove attività con entusiasmo infantile o, peggio, vivono in stato di confusione, mi fanno una tenerezza troppo simile a quella che provo per me stesso in questo momento.

Molti di voi hanno fatto un salto coraggioso per gettarsi dentro un’avventura nuova e faticosa e rischiosa. Nuove città, nuovi studi, nuovi lavori. O, al contrario, hanno avuto il coraggio di proseguire quello che avevano iniziato. Sempre come situazione transitoria verso i propri veri, sentiti interessi.
Siete felici della vostre scelte?